Quei vecchi siamo noi

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di Marco Proietti Mancini

Non mi piace la parola “anziano”, è ipocrita e falsa, non c’è nulla di male a esser vecchi.

Sempre più spesso mi succede di vedere vecchi cercare nei cassonetti. Dietro a un grande supermercato dalle parti di Via Laurentina ce ne sono alcuni che sembra si diano appuntamento ogni mattina, insieme a una signora che viene con due bambini. C’è anche un altro vecchio con una pancia enorme, arriva con una Smart e riempie il bagagliaio di roba. Ma per lui è una cosa diversa, mi hanno detto che lui al cassonetto fa la spesa in grande, non lo fa per bisogno ma perchè ha una tavola calda, il porco viene a prendere la roba scaduta e mezza marcia e poi se la rivende dopo averla cucinata. Comunque quando c’è lui nessun altro si azzarda ad avvicinarsi al cassonetto, deve averli minacciati, il bastardo. Spero di passare una volta e trovarlo lì, così gli insegno cosa vuol dire aver bisogno.

I vecchi e la signora non si accalcano, non si spingono; è talmente tanto lo spreco del supermercato da sembrare abbondanza. Gli sfilatini del giorno prima, i polli arrostiti e le confezioni scadute di formaggio, di pasta fresca. Gli inservienti del supermercato ormai lo sanno cosa succede, non buttano più tutto alla rinfusa, ma sembra che aspettino l’arrivo dei vecchi e cercano di buttare le cose in modo che non si sporchino e non si rovinino troppo. La cosa triste è vedere i vecchi che cercano anche di recuperare la frutta, la verdura. Mi ricorda i miei nonni di paese, dopo decenni a considerare la carne un lusso non erano più capaci di non mangiare la frutta e la verdura del loro orto. Prima di mangiare le cose nuove, fresche, il pane appena sfornato, bisognava finire le cose vecchie, il pane rifatto. Anche quando il pane diventava duro come il sasso non si buttava, ci si faceva la minestra.

Poi penso che questi stessi vecchi che vedo lì, a far la fila, forse la sera ci pensano prima di accendere le lampadine in casa loro, perchè le bollette della corrente costano, magari non hanno il telefono e se anche ce l’avessero non hanno nessuno da chiamare e nessuno che li chiami. Mi rivengono in mente i loro vestiti, scuri, dignitosamente consunti e sformati, da anni di gomiti e ginocchia che si sono rimpiccioliti e hanno lasciato le loro forme addosso al tessuto. I pantaloni ricadono in due, tre pieghe sulle scarpe con la punta un po’ all’insù e consumata. I vecchi si rimpiccioliscono, smettono di crescere e tornano piccoli come bambini.

Sapete chi sono, quei vecchi? Sono gli stessi che hanno fatto in tempo a vedere, a sentire la guerra, quelli che erano poco più che ragazzini quando suonavano le sirene e dovevano solo correre a nascondersi nelle cantine, tra carbone e botti sfondate, nella puzza della muffa e della paura, ad aspettare che le bombe finissero di cadere. Sono gli stessi vecchi che hanno fatto la fame da bambini, e poi si sono trovati a crescere quando cresceva l’Italia, cresceva per tutti, ma non per loro, cresceva per i loro figli, ma non per loro. Quei vecchi sono quelli che non hanno avuto la fortuna, la voglia, la forza, di imparare a essere qualcosa di diverso da quel che la natura li aveva fatti. Perchè mica è detto che un popolano debba per forza voler diventare borghese, magari gli sta bene rimanere popolano. Tanto ha detto l’Italia, il Governo, che poi ci pensano loro, che i vecchi che non erano ancora vecchi pensassero a lavorare, che alla salute, alla pensione, alla vecchiaia, ci avrebbe pensato il Governo, ci avrebbe pensato l’Italia.

Ma l’Italia adesso ha altro a cui pensare.

Lo sapete, chi sono quei vecchi? Quei vecchi siamo noi. No, non saremo, già lo siamo, se lasciamo che ci siano vecchi che scavano nei cassonetti per uno sfilatino di pane, se lasciamo che un vecchio pianga ancora, da vecchio, dopo aver pianto da bambino.

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