Sognando Jane Austen a Baghdad

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di Virginia Odoardi

Sognando Jane Austen a Baghdad: dall’epistola alla mail, la parola al femminile continua a mantenere in vita.

Bee Rowlatt e May Witwit, donne coraggio, eroine dei nostri giorni, scrittici dall’immensa capacità descrittiva. Sognando Jane Austen a Baghdad è un romanzo epistolare edito dalla Penguin nel febbraio 2010 e in Italia dalla Piemme nell’ottobre dello stesso anno.
Si tratta della pubblicazione per intero delle mail che le due autrici si sono scambiate nell’arco di anni, vivendo una a Londra e l’altra a Baghdad durante l’invasione americana che ha portato alla deposizione e morte di Saddam Hussein.
Bee Rowlatt è una giornalista della BBC che cerca contatti tra iracheni cresciuti in Gran Bretagna per un reportage. Il caso o forse il destino la mette in contatto con May Witwit, docente di letteratura inglese all’università di Baghdad, vissuta in adolescenza a Glasgow. Con il pretesto dell’intervista, inizia un rapporto epistolare che si traduce in una vera amicizia e nella creazione dell’opera stessa, che si rende unica nel suo genere poiché nasce dalla casualità e non da un progetto.
Bee, infatti, pensa all’idea del libro solo dopo qualche anno di e-mail scambiate, con il fine di riuscire a trovare i fondi per far fuggire l’amica May dall’inferno di Baghdad.

Due donne che vivono in luoghi, geograficamente e culturalmente, lontani. La quotidianità della vita londinese di Bee si contrappone alle difficoltà incontrate da May durante l’invasione. Le bombe, il coprifuoco, le perquisizioni, le violenze subite e sopportate con tenacia da questa donna straordinaria, che riesce a sopravvivere alle vessazioni della guerra.
Il valore del romanzo non è solo racchiuso nella potenza emotiva emanata soprattutto dai racconti di May, non si può definire nemmeno una scrittura di genere, la forza delle due donne fuoriesce dall’opera senza che le autrici lo vogliano. Ciò che colpisce inizialmente è il titolo che non può che rievocare il più famoso Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi, il lettore si avvicina all’opera sperando di trovare qualcosa che ricordi la grandezza e lo splendore dell’autrice iraniana. Per di più, se appassionato di donne, Oriente e Inghilterra spera di poter rileggere le pagine della letteratura inglese attraverso gli occhi e le menti di giovani studentesse irachene, ma si sbaglia.

Il titolo molto probabilmente è solo una trovata pubblicitaria della casa editrice per attirare quel target di pubblico, ma la scelta di porre al centro la figura di Jane Austen ha un obiettivo ben preciso collegare il passato al presente, raccontando un universo culturale che si interpreta attraverso lo sguardo femminile. L’occhio della donna irachena, novella Austen, che da spazi chiusi, socialmente in disparte, racconta il conflitto, narra la storia, quella che un giorno non sarà riportata nei libri. La corruzione della classe politica, gli interessi economici connessi all’invasione, quelli che l’establishment internazionale nega di aver avuto all’inizio della guerra.

Il conflitto priva la donna delle sue libertà in pubblico, privazione derivata anche dall’insinuazione al potere da parte dei fondamentalisti, elemento comune alla Nafisi della vicina Teheran. È, inoltre, costretta a ricercare il suo spazio d’azione nel privato, consciamente consapevole che la sua potenza e le sue potenzialità non possono essere velate con le imposizioni.
Jane Austen scrisse: «Single women have a dreadful propensity for being poor, which is one very strong argument in favour of matrimony» (Le donne sole hanno una spaventosa tendenza a essere povere e questo è un fortissimo argomento a favore del matrimonio N.d.A.), volendo raccontare la condizione di subalternità femminile nella società britannica del XVIII secolo. Molti accusarono la Austen di mancanza di ribellione, ma non sempre colui o colei che vuole rovesciare un sistema deve per forza distruggerlo con violenza, la sapienza femminile seppe all’epoca decostruire, scalfendo lentamente la gabbia in cui il mondo al maschile l’aveva rinchiusa.

May Witwit racconta di donne del XXI secolo, ancora imprigionate in reticoli sociali, da quali sanno uscire attraverso l’uso dell’intelletto e della cultura. Donne soggette al contesto maschilista dal quale devono difendersi per mantenere la propria autonomia e che, come nel caso della scrittrice, pur ricoprendo ruoli professionalmente rilevanti ed essendo finanziariamente indipendenti, hanno bisogno spesso di figure maschili per relazionarsi con il mondo esterno.
Il fatto che il romanzo non sia invenzione delle autrici ma narrazione dettagliata della loro vita, rafforza ancor di più l’idea che le coordinate imposte dal teatro sociale siano fittiziamente accettate dai soggetti che, pirandellianemente, giocano ognuno la loro parte, sopravvivendo all’impossibilità di autodeterminarsi pienamente. Alì, marito di May, è palesemente subordinato alla carriera accademica della moglie. May ottiene, infatti, una borsa di studio per dottorato in Gran Bretagna, salvando entrambi dalla guerra. Nonostante ciò, Alì per consuetudine culturale, pretende dalla moglie tutte le devozioni tipicamente attribuite alla donna, dimenticando che senza il lavoro di May il suo destino sarebbe legato per sempre a Baghdad e alla depressione causata dal conflitto.

Questo romanzo esalta la cooperazione, tutta al femminile, dimostrando ancora una volta le straordinarie potenzialità che avrebbe un mondo un po’ più al femminile, un mondo in cui cariche e ruoli dominanti non siano raggiunti attraverso imposizioni legislative, ma che scaturiscano da semplice meritocrazia, il che renderebbe, sicuramente, il tutto decisamente più rosa.

 

Virginia Odoardi – Laureata in Lingue per la Comunicazione Internazionale, all’Università L.U.M.S. A. di Roma, con una tesi in Sociologia del Territorio sui matrimoni imposti nelle comunità immigrate di seconda generazione in Italia e Gran Bretagna. Collabora come freelance con diverse testate giornalistiche. Interessata alla sociologia dei fenomeni migratori, ha approfondito lo studio di tematiche di genere e delle politiche di integrazione. È in attesa di frequentare il corso relativo al progetto “Ricerca azione partecipata sulle vittime della tratta degli esseri umani, dei crimini d’onore e dei matrimoni forzati in seno alle comunità immigrate africane e dell’Europa dell’Est”, finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma Daphne

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